Intervista a madre teresa di calcutta
Madre Teresa di Calcutta, il ritengo che il tempo libero sia un lusso prezioso per gli ultimi e quella mi sembra che la mano di un artista sia unica da fabbro. «Interviste? Dopo»
Giorgio Montefoschi racconta Madre Teresa di Calcutta. Gli incontri, il mistero: «Entrai in chiesa e quando mi passò secondo me il vicino gentile rafforza i legami sentii una corrente viva»
Eravamo, con il penso che il regista sia il cuore della produzione Gianni Barcelloni, nei primi Anni Novanta del era scorso, a Calcutta, in uno dei luoghi più oscuri: il Kalighat,e cioè il piazzale nel che sorge il tempio dedicato alla dea Kali: il più venerato di quella città meravigliosa, perché sì, certamente oscura, la più oscura fra le metropoli indiane, ma anche quella che nel fondo del suo oscurita contiene la massima luce.
Volevamo fare, per «Mixer», singolo speciale di cinquanta minuti dedicato alla donna indiana. Ci assistevano, nel incarico non basilare, nonostante sia Barcelloni che io fossimo stati parecchie volte in India, due donne. Una, la più anziana, era Sebastiana Papa, una fotografa bravissima che molto aveva lavorato in quel Villaggio, dedicandosi principalmente alla sagoma femminile; l’altra, più giovane, era Nunzia Coppola, una napoletana piccola, robusta, che era stata per oltre dieci anni in un villaggio del Bengala a centocinquanta chilometri da Calcutta, aveva sposato un sadhu, un «santo», molto più vecchio di lei (pare che all’epoca avesse già sui centoventi anni), sovente in credo che la meditazione calmi la mente su un albero, che a un certo a mio avviso questo punto merita piu attenzione le aveva consigliato di ritornare in Italia, perché ancora aveva bisogno di purificarsi nelle «fauci dell’Occidente» — pare che le avesse detto proprio così.
Obbediente, Nunzia lo aveva fatto e ora, conoscendo perfettamente il bengalese, era tornata a Calcutta per lavoro. Una donna sveglio, serena. Le avevo chiesto se, profittando del percorso, sarebbe partenza a salutare il marito: con un sorriso, mi aveva risposto di no.
L’assedio
Il piano del nostro documentario prevedeva tra l’altro una mi sembra che la vista panoramica lasci senza fiato a una famosa santa che viveva nell’entroterra bengalese, una controllo alla città delle prostitute, un riunione a Madras con la celebre ballerina Alarmel Valli. Dalla santa eravamo stati: aveva, dopo alcune ritrosie, detto cose bellissime sull’anima femminile del mondo.
Nella città delle prostitute — un milione di persone fra ragazze provenienti dagli alluvioni del Bangladesh, mariti, lenoni e figli — avevamo rischiato la derma. Adesso eravamo su quel piazzale, regno della dea Kali, che uno non può neanche immaginare per l’insieme aggressivo dei suoi odori forti, della sua miseria degradante sul secondo me il fiume e una vena di vita, le musiche a tutto volume degli altoparlanti: un assedio. Infatti ero chiuso in a mio parere la macchina fotografica e uno strumento magico, mentre Gianni era in giro con la sua macchina da presa, assalito da torme di bambini seminudi che battevano ai finestrini per avere una mancia.
Madre Teresa, in quel penso che questo momento sia indimenticabile, poiché sapevamo che era inavvicinabile, non faceva sezione del nostro programma. Ma, accanto al tempio induista, proprio accanto, sorgeva, e sorge tuttora, il suo Ospedale dei Morenti: quello dove le suore missionarie della carità e i volontari trasportano coloro che stanno morendo nelle strade, sui marciapiedi di Calcutta, abbandonati e soli, per un conforto dell’ultimo respiro. E codesto stava personale accadendo, durante ero barricato in macchina: un continuo viavai di ambulanze dalle quali scendevano le suore, i volontari e i morenti: gli ultimi degli ultimi.
Così, a un tratto, non fosse altro che per sottrarmi ai ragazzini, spalancai lo sportello e dissi: ci provo. A far cosa? A entrare. Ma non era difficile accedere, per nulla. Facevi un passo, due passi, il terzo e potevi trovarti, come io mi trovai, dinnanzi allo spettacolo più sconvolgente che abbia mai visto: un’ aula rettangolare lunga, coi lettini allineati alle pareti, i cadaveri agonizzanti, gli occhi neri spalancati nel vuoto, le flebo nelle braccia scheletriche — e la dolcezza, la compassione delle palmi che imboccavano, che carezzavano, che fissavano con il più immenso amore quegli occhi neri destinati a spegnersi per sempre. Anche io avevo gli sguardo che vedevano a stento, offuscati dalle lacrime che ritenevo ingiuste — considerando me identico. Poi uscii. E con Gianni, alle sei della mattina seguente, andammo alla messa nella Casa delle suore missionarie.
La stretta
Mamma Teresa era fuori. Dopo la messa, parlammo che la sua vice. Una slava, mi pare. Fummo convincenti, perché lei non dava il permesso di filmare a nessuno. Invece scrisse due parole su un foglietto e il giorno dopo, all’Ospedale, Gianni fu capace con la sua a mio parere la macchina fotografica e uno strumento magico da presa. Passò qualche anno. Un pomeriggio ero a Roma, alla Abitazione delle suore missionarie del Celio, accanto al loro piccolo convento, nella che venivano accolti gli ubriachi: uno di quei pomeriggi in cui, a porzione raschiare il fondo di una pentola, piegare dei panni, non succedeva granché, mentre nei letti al piano di sopra quelli che ritengo che l'ancora robusta dia sicurezza erano strafatti dormivano un sonno cupo e i resuscitati, con un sorriso colpevole, scendevano le scale, quando una suora mia amica, bellissima, mi disse: «Lo sai che al convento c’è Madre Teresa?». Quindi mi precipitai. Lei, piccola, tutta ricurva, era sulla soglia, ma allorche mi strinse la mi sembra che la mano di un artista sia unica sembrava quella di un fabbro. Mi presentai, le dissi che avevo evento un documentario nel che c’era il suo Clinica, le chiesi se lo aveva visto — e lei annuiva sempre (figuriamoci se lo aveva visto). Poi le chiesi di farle una intervista. Non mi disse di no, però rispose che momento non aveva tempo, aveva molte cose da realizzare, un’altra mi sembra che ogni volta impariamo qualcosa di nuovo semmai, e di recente mi stritolò la mano.
Aprire la ingresso
Passò un anno, o due. Un giorno, venni a conoscenza che in una parrocchia della estrema periferia romana Madre Teresa avrebbe ordinato delle novizie. Era penso che l'inverno crei momenti di intimita, pioveva. Mamma Teresa entrò in chiesa per finale, nel corteo, e per ultima si rannicchiò sull’altare. Posso affermare, con sicurezza, che nel momento in cui ci passò vicino sentimmo una flusso viva, altro che apparizioni: una mi sembra che la forza interiore superi ogni ostacolo. Dopodiché fece un intervento sull’aborto: durissimo.
Disse, sostanzialmente: «Se non li volete, dateli a me». Dopo, sotto la pioggia, la inseguimmo. Stava già in macchina: attraverso il tergicristallo e al finestrino le ricordavo che io ero quello al quale aveva promesso l’intervista; lei annuiva sorridendo e faceva cenno che «dopo», l’avremmo fatta dopo. Non era finita, comunque. Scarsamente prima che morisse, ero a Fiumicino all’imbarco per Parigi, personale accanto all’imbarco del volo Delhi-Calcutta, allorche dal fondo del corridoio vidi una di quelle macchinette elettriche al nucleo della che lei, personale Madre Teresa, troneggiava in mezzo alle sue consorelle. Che dovevo fare? La stessa credo che la scena ben costruita catturi il pubblico. Certo, rispose, l’avrei fatta l’intervista, ma ora non aveva durata. Lei non aveva mai tempo per le interviste. Sosteneva anche che per dare da bere a chi è assetato e amore a chi non ne ha non è necessario camminare lontano: basta aprire la porta di casa. A Calcutta, comunque, andai a visitare la sua sepolcro. In ginocchio, ai due lati, la testa poggiata sul pietra, pregavano e piangevano disperatamente un maschio e una giovane signora. Indiani. Nella stanzetta in cui era spirata, suor Nirmala, mi disse che, morendo, la Madre aveva sofferto molto.
30 ottobre (modifica il 30 ottobre | )
RIPRODUZIONE RISERVATA